IT - 08 06 14 - da La Repubblica - Fabio Tonacci / UBer contro i taxisti è solo il primo esempio di come le piattaforme di condivisione stiano affossando antichi monopoli ...
e mercati dominati dalle vecchie corporazioni.
Uber pop, Blablacar, Lyft e le altre app dedicate alla mobilità mettono in contatto gli automobilisti per organizzare passaggi in macchina. Sono entrate, con innegabili forzature della legge, in un settore prima dominato dalle sigle dei tassisti, negli anni capaci anche di imporre ai sindaci i tetti alle licenze.
Non possedere niente, ma usare tutto. Accedere a un servizio, senza mai comprarlo. Condividere oggetti, capacità, automobili, il tempo e gli spazi. C'è addirittura chi pensa che il capitalismo finirà così, seppellito dalla sharing economy.
Per adesso, l'effetto concreto in Italia di Uber Pop, Blablacar, Airbnb, Becrowdy, Coworking for e delle altre 100 e passa piattaforme di condivisione attive è quello del grimaldello: fanno scricchiolare monopoli antichi, scardinano a poco a poco mercati dominati dalle lobby, protetti dalla politica e da vecchie leggi, rese desuete dalla tecnologia ma sempre e comunque leggi. Quello che sta succedendo a Milano, con i tassisti in sciopero da tre giorni, ne è la prevedibile conseguenza.
Uber pop, Blablacar, Lyft e le altre app dedicate alla mobilità mettono in contatto gli automobilisti per organizzare passaggi in macchina. Sono entrate, con innegabili forzature della legge quadro che risale al 1992, in un settore prima dominato dalle sigle dei tassisti, negli anni capaci anche di imporre ai sindaci i tetti alle licenze. «Sono illegali - continuano a sostenere i sindacati delle auto bianche - funzionano come taxi abusivi, fanno concorrenza sleale. Eppure noi le licenze le abbiamo pagate 100, 150 mila euro. Lo Stato, o i Comuni, devono fermarli, ci devono proteggere».
Negli ultimi due anni nel nostro Paese sono spuntate 136 piattaforme digitali di sharing economy, soprattutto al Nord. Nel 2013 il 13 per cento della popolazione, 7 milioni italiani, le ha utilizzate almeno una volta: condividendo con sconosciuti l'automobile, un posto letto, la babysitter, l'abilità ai fornelli, barattando oggetti, raccogliendo fondi. «Boom dovuto alla crisi e alla familiarità crescente con social network e smartphone - spiega Marta Manieri, gestore del sito collaboriamo.org - il fenomeno crescerà ancora, le possibilità sono enormi.
I benefici per chi partecipa, in termini di risparmio, pure. Per l'Expo faremo sperimentazioni coi servizi di mobilità, di accoglienza e del food». La logica è quella del peer to peer, quella del primo eBay per intenderci, anno 1996, quando era solo un bazar online di oggetti usati: due utenti si scambiano qualcosa attraverso un portale che ha un margine di guadagno. Da lì in poi sono nate centinaia di startup, spesso border line rispetto a normative e leggi.
Prendete Becrowdy, Boomstarter, Dropis, Eppela, Prestiamoci e le altre le 22 piattaforme del crowfunding, il micro-finanziamento dal basso, utilizzabili in Italia. Grazie ad esse si sono raccolti finora 23 milioni di euro, l'80 per cento dei quali con la formula del social lending, del prestito senza l'intermediazione bancaria finalizzato alla realizzazione di progetti. Una goccia nel mare della finanza, certo, ma comunque un'incursione nel mondo in cui da sempre i padroni sono gli istituti bancari, e solo loro. «La sharing economy ha sicuramente questo di positivo - spiega Mario Maggioni, docente di politica economica all'Università Cattolica di Milano - abbatte barriere "artificiali" create in alcuni mercati. Tant'è che la nuova legge sulle banche di investimento ha cercato di includere le forme di crowdfunding ».
Ma non è tutto sharing quello che luccica, a quanto pare. «Ci sono anche dei criteri di qualità e sicurezza che i servizi pubblici, quali questi sono, devono comunque garantire - continua Maggioni - non credo che tutte le forme di affitto tra privati rispondano sempre a tali requisiti ». Il riferimento è a Airbnb, la app inventata a San Francisco nel 2008 che sta avendo un gran successo: bypassando agenzie immobiliari e siti specializzati tipo booking.com o expedia (su di loro l'Antitrust italiano ha aperto un'istruttoria per possibili violazioni della concorrenza), ha messo in piedi in 194 paesi una rete di 600mila alloggi per l'affitto a breve termine di stanze, appartamenti, a volte castelli. Come unica garanzia della qualità delle sistemazioni, le foto e i feedback degli altri utenti.
«In Italia Airbnb ha un ruolo diverso, meno dirompente rispetto a Uber», spiega Matteo Stifanelli, il country manager. «L'affitto a breve termine è perfettamente legale da anni, e di fatto la nostra startup ha regolato situazioni già esistenti». Stifanelli ricorre all'esempio di Milano, durante la design week: «I milanesi da anni affittano ai viaggiatori stanze e appartamenti nella settimana del design. Con Airbnb hanno la possibilità di farlo seguendo le disposizioni di legge, tutto qua. Quest'anno abbiamo avuto 5000 posti, quasi tutti affittati».
Il servizio di intermediazione costa il 10 per cento dell'importo giornaliero, stabilito da chi mette a disposizione l'alloggio, ed è chiaro dove sia il business in un paese come il nostro che conta 48 milioni di arrivi all'anno. Tant'è che ogni giorno 12mila persone utilizzano il sito Airbnb per soggiornare in Italia, e gli spazi a disposizione sono già più di 60mila. Gli albergatori e le agenzie immobiliari non l'hanno presa benissimo, si sono appellate al rispetto delle rigide normative a cui loro devono sottostare. «Non siamo un loro competitor diretto - risponde sul punto Stifanelli - i nostri clienti non scelgono l'albergo».
Nell'universo in fermento della sharing economy, ci sono anche piattaforme che non dividono, che trovano il plauso generale.
Tale pare essere Locloc, la prima app italiana del noleggio tra privati. Più gli oggetti sono insoliti, più sono richiesti. «Metal detector, vestiti per la danza del ventre, sci da coppa del mondo - racconta Michela Nose, la fondatrice - abbiamo 12.500 iscritti e ancora ci stupiamo delle cose che vengono noleggiate. Mi aspettavo i mugugni di negozianti e centri commerciali, invece niente. Ma forse perché la nostra è una realtà ancora piccola, che non dà fastidio ».